Se il nostro corpo diventa una password
Nella Colonia Penale, Kafka racconta di un ufficiale che minuziosamente spiega "la macchina per scrivere la legge". E all'interlocutore che chiede se il condannato conosce la sentenza che lo riguarda, l'ufficiale risponde: "È inutile comunicargliela, tanto la conoscerà sul proprio corpo". Da sempre il corpo è superficie di scrittura atta a ricevere il testo visibile della legge che la società detta ai suoi membri. Ogni suo tratto è una traccia indelebile, un ostacolo all'oblio, un segno che fa del corpo una "memoria". Ma dire "memoria" oggi vuol dire consegnare il corpo alla tecnica informatica che, oltre alle impronte digitali, può rilevare quelle retiniche, quelle vocali e persino quelle olfattive. Può misurare la distanza che intercorre tra le nostre dita divaricate, nonché la cadenza della nostra andatura. Il corpo ci rivela. E la tecnica può rapirci quanto di più intimo, di più nostro, di più segreto custodiamo come riferimento ultimo della nostra identità. Potremo avere passaporti che raccolgono in un microchip tutti questi dati. Finiremo con l'essere, come da sempre siamo, sconosciuti a noi stessi, ma trasparenti a chiunque voglia saper tutto di noi. La nostra identità dovrà piegarsi alle esigenze di identificazione. Il Garante della privacy, nella sua relazione annuale, ha denunciato con parole forti questo pericolo, mettendo in guardia dalla possibilità di ridurre il nostro corpo a una password che rende accessibile a tutti la nostra identità, catturata in quell'unico recesso che non possiamo nascondere: la nostra fisicità.
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